Una delle primissime attività ad essere state autorizzate in uscita dalla quarantena per il covid-19 sono stati i tagli boschivi; fra l’altro in primavera, cioè nel momento peggiore possibile sia dal punto di vista degli impatti ambientali, sia da quello della qualità del legname raccolto. Del resto, l’idea che i tagli boschivi siano un’attività vitale per il paese è un’idea largamente condivisa fra i decisori politici. Già nel 2018 fu approvato un decreto-legge denominato “Testo unico in materia di foreste e filiere forestali” in attuazione del quale è ora in corso di definizione una “Strategia Forestale Nazionale”. Al di là delle encomiabili dichiarazioni di principio, la sostanza di entrambi questi documenti è che ci si aspetta una crescita della domanda di legname dagli attuali 3 miliardi di metri cubi annui a 8,5 miliardi nel 2030 e ben 13 miliardi nel 2050. Il sottotesto di questi documenti è che le foreste li dovranno fornire, anche contro la volontà dei proprietari, perché questo esige il mercato. Nel frattempo, la Commissione Europea ha proposto una sostanziale revisione della vigente direttiva “RED 2”, per disincentivare l’uso energetico del legname ed estendere le aree strettamente protette, con particolare riguardo alle foreste più vecchie (che sono anche quelle particolarmente desiderabili per le ditte del legname). Vedremo cosa uscirà dalla contrattazione fra la Commissione ed i diversi governi nazionali e quali foreste saranno ancora in piedi quando la nuova direttiva diventerà operativa. Nel frattempo con questo articolo a firma del nostro redattore ecologo Jacopo Simonetta, cerchiamo di capire meglio come funzionano i boschi ed entro quali limiti il loro sfruttamento può essere considerato autenticamente sostenibile.
Perché continuiamo a considerare il legname energia rinnovabile?Una delle primissime attività ad essere state autorizzate in uscita dalla quarantena per il covid-19 sono stati i tagli boschivi; fra l’altro in primavera, cioè nel momento peggiore possibile sia dal punto di vista degli impatti ambientali, sia da quello della qualità del legname raccolto. Del resto, l’idea che i tagli boschivi siano un’attività vitale per il paese è un’idea largamente condivisa fra i decisori politici. Già nel 2018 fu approvato un decreto-legge denominato “Testo unico in materia di foreste e filiere forestali” in attuazione del quale è ora in corso di definizione una “Strategia Forestale Nazionale”. Al di là delle encomiabili dichiarazioni di principio, la sostanza di entrambi questi documenti è che ci si aspetta una crescita della domanda di legname dagli attuali 3 miliardi di metri cubi annui a 8,5 miliardi nel 2030 e ben 13 miliardi nel 2050. Il sottotesto di questi documenti è che le foreste li dovranno fornire, anche contro la volontà dei proprietari, perché questo esige il mercato. Nel frattempo, la Commissione Europea ha proposto una sostanziale revisione della vigente direttiva “RED 2”, per disincentivare l’uso energetico del legname ed estendere le aree strettamente protette, con particolare riguardo alle foreste più vecchie (che sono anche quelle particolarmente desiderabili per le ditte del legname). Vedremo cosa uscirà dalla contrattazione fra la Commissione ed i diversi governi nazionali e quali foreste saranno ancora in piedi quando la nuova direttiva diventerà operativa. Nel frattempo con questo articolo a firma del nostro redattore ecologo Jacopo Simonetta, cerchiamo di capire meglio come funzionano i boschi ed entro quali limiti il loro sfruttamento può essere considerato autenticamente sostenibile.Premessa
Quello che sta accadendo e che accadrà nei boschi e nelle nostre vite dipende essenzialmente dal fatto che
la nostra civiltà sta morendo di una subdola inedia energetica, anche se i petrolieri non sanno più dove mettere il loro “ex oro nero”. In questa sede non possiamo dilungarci per cui rimando al cospicuo articolo di
Luca Pardi sull’argomento intitolato “
Dopo la crescita e verso il Picco di Tutto”; vorrei comunque ricordare che, per tutte le principali fonti energetiche disponibili, le fasi di estrazione, raffinazione e trasporto assorbono una percentuale rapidamente crescente dell’energia estratta, lasciandone sempre meno a disposizione dell’economia globale, al netto dell’industria energetica stessa. L’odierno assalto alle foreste europee va letto dunque in questo contesto: non è altro che un disperato tentativo di mantenere operativo un sistema industriale ed una società energivora comunque insostenibili.
Spiccioli di ecologia forestale
Cosa è un bosco e come si valuta la superficie forestale?
L’Europa è un continente da millenni densamente popolato, da secoli sovrappopolato cosicché tutti i suoi ecosistemi sono stati più o meno intensamente antropizzati. Oggi meno del 4% dei nostri boschi può essere considerato a tutti gli effetti come una foresta; quasi tutto il resto sono varie tipologie di ecosistemi giovani ed instabili come piantagioni da legno, rimboschimenti, cedui, ecc. Come li dobbiamo considerare questi giovani ecosistemi? Faccio un esempio:
il poco che resta della pineta di S. Rossore è un bosco? Oppure è un frutteto in abbandono parzialmente colonizzato da una giovanissima lecceta resiliente? Le abetaie cadorine (quelle venute giù in massa con la tempesta Vaia del 2018) erano boschi o monocolture da legno? E come considerare i castagneti o le pioppete? E la valutazione dipende anche dall’ottica temporale prescelta. Per esempio: una superficie soggetta a taglio raso o ad un incendio cessa di essere un ecosistema boschivo per almeno venti anni (talvolta per secoli), ma continua ad essere qualificata come bosco se vi si piantano o se si presume che vi nasceranno nuovi alberi (se poi cresceranno davvero lo sapremo solo fra molti anni).
Di conseguenza, cosa sia bosco e cosa no dipende in buona parte da chi ne parla, in che contesto e con quali scopi.Come funziona un bosco?
Per la maggior parte di noi i boschi sono superfici coperte di alberi, ma la realtà è molto più complessa e la parte principale non la vedremo mai perché si trova sottoterra. In un metro quadro di suolo forestale si trovano dai 30 ai 550 grammi di batteri, fra 60 e 100 g di ife fungine, da 0,5 a 10 g di alghe e 5 – 20 g di protozoi, più molte altre cose meno rilevanti. Vuol dire che
nel suolo forestale ci sono fino a 8 miliardi di cellule viventi per grammo di terreno (un cucchiaino). Quando si interviene sugli alberi, si interviene anche su tutto questo ed è di tutto questo che vive un bosco, non solo di alberi, ma è rarissimo che qualcuno ci pensi.
Ma non è tutto:
questi miliardi di organismi interagiscono con le radici, sviluppando incredibili reti (chiamate anche Wood Wide Web) tramite le quali gli alberi si scambiano materiali ed informazione, si nutrono o si avvelenano vicendevolmente. Proprio per questo un bosco non è un insieme di alberi, ma un ecosistema capace di reagire agli eventi e di sopravvivere, entro certi limiti, alle calamità. Non è un caso se le tempeste devastano le monocolture, mentre le foreste resistono (per ora).
In questo sistema,
il ruolo chiave è giocato delle piante più vecchie che costituiscono i nodi principali di queste reti; dei veri e propri “hub” che regolano in gran parte la vita del bosco. È questa una delle ragioni per cui mai e poi mai si dovrebbero tagliare queste piante cui, al contrario, si dovrebbero assicurare la tutela (anche dopo morte) ed il ricambio. Cioè esattamente i contrario di quanto insegnavano (e credo che tuttora insegnino) nelle facoltà di selvicoltura.
Quando si tolgono gli alberi più vecchi, infatti, il livello di integrazione fra i vari elementi dell’ecosistema si riduce e per essere ripristinato occorrono secoli. Di conseguenza, la resilienza e la capacità di adattamento dell’ecosistema diminuiscono drasticamente,
rendendo il bosco molto più vulnerabile, per esempio alle avversità climatiche ed ai parassiti.Come nascono, crescono e muoiono gli alberi? Ed i boschi?
Un punto fondamentale che spesso si trascura è che nelle piante l’evoluzione dura per tutta la vita. Le mutazioni genetiche sono molto frequenti: quelle sfavorevoli vengono eliminate con il ramo che le porta, mentre quelle utili o neutre si accumulano durante la vita e vengono trasmesse alla discendenza tramite i semi. Non è infatti raro che in un’unica chioma si trovino rami con genomi diversi fra loro e diversi da quello delle radici
. Questo significa che
più le piante sono vecchie, più numerose sono le avversità cui sono sopravvissute, più la loro discendenza è adattata ai tempi moderni.Decenni, talvolta secoli di pignolissimo e gratuito lavoro di selezione naturale che può essere spazzato via in pochi minuti da una motosega. In pochi secondi dalle attuali macchine. In pratica, i metodi forestali correnti tendono a selezionare sistematicamente i riproduttori peggiori. La maggior parte dei boschi italiani ed europei sono molto giovani e non hanno dei veri “patriarchi” al loro interno, men che meno una rete di alberi-chiave e questo è un grosso problema. Un altra gravissima tara è la scarsa
biodiversità che, anch’essa, riduce la resilienza dell’ecosistema e, spesso, anche la produttività primaria (ma non sempre). Rispetto al’Asia ed al Nord America, la geografia europea ha fatto sì che le glaciazioni vi provocassero l’estinzione di molte specie che altrove sono invece sopravvissute. Una situazione fortemente peggiorata dal massiccio disboscamento che la maggior parte del nostro sub-continente ha subito a più riprese nella storia. Oggi le specie forestali in Europa sono meno di un centinaio e una decina appena costituiscono la quasi totalità dei nostri boschi. Una situazione invero disperata che dovremmo cercare di lenire invece di aggravare.
La durata della vita degli alberi varia moltissimo, da alcune decine a migliaia di anni a seconda delle specie; teoricamente infinito in alcuni casi. Comunque,
diciamo che per le specie forestali principali dei nostri boschi l’aspettativa di vita media sarebbe di 4 o 5 secoli, pur potendo essere molto di più (anche 2.000 anni per alcune specie come l’Abete bianco, il Tasso ed il Pino loricato).
Querce, faggi, castagni e olmi di 7-800 anni sarebbero comuni, se non li avessimo già tagliati quasi tutti.Un altro punto importante è che, per gli alberi, la morte può avvenire anche in modo brusco, ma di solito muoiono con molta gradualità. È del tutto normale che mentre parti della chioma sono già morte, altre continuino a prosperare. Una cosa molto difficile da capire per noi, ma che dovremmo sempre tener ben presente quando li osserviamo e quando pensiamo ad essi.
I boschi ed il riscaldamento globale
Nei climi temperati, gli alberi approfittano dei mesi primaverili per crescere e di quelli estivi per accumulare riserve che serviranno soprattutto nella primavera successiva per formare la nuova chioma. Se per un’estate fa troppo caldo e secco per poter fotosintetizzare a sufficienza, l’albero perderà parte delle foglie, ma poco male se può attingere alle riserve di lungo periodo che saranno reintegrate nelle annate successive.
Se, però, la pianta ha difficoltà per parecchie estati successive, gradualmente esaurisce le sue scorte e si indebolisce, diventando progressivamente più vulnerabile ad ulteriori avversità come incendi, parassiti, ondate di calore. I sempreverdi, come pini ed abeti, funzionano in modo un poco diverso, ma vale sempre il fatto che l
e piante in buona salute possono sopravvivere ad avversità notevoli, mentre una serie di annate sfavorevoli le rende vulnerabili. Segnali generici di sofferenza sono, per esempio, la ridotta produzione di semi e/o l’attacco virulento di insetti e rampicanti, in particolare dell’edera (che è un vero predatore vegetale). Segni più specifici sono meno evidenti, come la minore densità foliare, il colore verde meno intenso, la morte degli apici dei rami ed il conseguente contrarsi della chioma. A livello di ecosistema, lo stesso tipo si stress ha ulteriori effetti: soprattutto la ridotta vitalità del suolo e la riduzione della biodiversità, in particolare dei funghi che, mancando l’acqua, riducono o cessano l’attività, disgregando le simbiosi. La perdita di vitalità del suolo si traduce quindi in una minore funzionalità o nella perdita delle reti ecosistemiche cui si è fatto cenno, cosa che rende l’intero bosco più vulnerabile e meno efficiente. È questa una condizione oramai comune alla maggioranza dei nostri boschi.
Ricordiamoci sempre che la resistenza e la resilienza dei sistemi dipendono dall’entità delle loro riserve e dalla ridondanza delle loro reti.Un effetto particolarmente insidioso che opera anche a livello di individui, ma che è devastante a livello di ecosistemi, è lo sfasamento fra le temperature e la luce. Gli ecosistemi si reggono infatti su reti di relazioni fra organismi diversi che, alle nostre latitudini, sono regolate e coordinate sostanzialmente da due “orologi”: le temperature e l’illuminazione.
Il riscaldamento globale sta provocando un netto aumento delle temperature, mentre l’illuminazione rimane uguale. Questo sta sfasando i cicli delle piante, dei funghi e degli insetti, con effetti catastrofici per gli animali, ma gravi anche per le piante (un punto questo su cui però si sa ancora molto poco). Un altro elemento particolarmente nocivo è rappresentato degli incendi, quasi sempre di origine dolosa o preterintenzionale, ma resi particolarmente frequenti e distruttivi dal processo di inaridimento ormai cronico in quasi tutta l’Europa. In parte, questo dipende dalla modifica del regime pluviometrico (piogge meno abbondanti e più concentrate), in parte dalla captazione delle sorgenti e dei torrenti sia per alimentare gli acquedotti delle città, sia per far girare delle turbine elettriche.
Si possono tagliare i boschi?
Con qualche eccezione, certo che sì. Anzi ci sono milioni di ettari di piantagioni di conifere o di cedui semplici che avrebbero urgenza di un diradamento.
Il problema è: come tagliare?Quando ero studente mi fu insegnato che per aumentare la produttività bisognava “svecchiare il bosco” perché gli alberi giovani crescono più rapidamente di quelli vecchi. Questa idea è sbagliata, perché intanto non considera che per molte specie arboree la fase giovanile supera i 100 anni, le piante molto giovani crescono di più in percentuale, ma meno in cifra assoluta. Per essere chiari:
un alberello di 100 Kg che cresce del 10% farà 10 chili di nuovo legno in un anno. Un grande albero di 5 tonnellate che cresce dell’ 0,5% farà 250 kg di nuovo legno, sottraendo all’atmosfera venticinque volte più CO2. E questo non è l’unico fattore di cui occorre tener conto, ne cito alcuni altri in ordine sparso.
L’aumento di luce e calore seguenti un taglio può danneggiare ed anche uccidere le piante rimaste (alberelli, arbusti ecc.) e in ogni caso danneggia il suolo, attaccato anche da una ripresa dell’erosione che può essere passeggera, grave o anche catastrofica a seconda di molti fattori (natura delle rocce, pendenze, mezzi utilizzati, densità delle piante rimaste, clima, ecc.). Un discorso a parte va fatto poi per l’aumento delle temperature medie e massime che, se associate a carenza di acqua, fanno aumentare la respirazione più della fotosintesi. Vale a dire che
sempre più spesso ci sono periodi in cui le piante invece di crescere sopravvivono consumando sé stesse.Anche la catastrofica riduzione degli insetti e, viceversa, il massiccio ritorno degli ungulati cambiano drasticamente le condizioni ambientali del futuro rispetto al quelle del recente passato.
L’errore più grave che un tecnico forestale possa oggi commettere è pensare che nei prossimi 50 anni i boschi cresceranno come hanno fatto nei 50 scorsi, perché completamente diverso sarà il contesto in cui si troveranno. In particolare, prolungate siccità, colpi di calore e tempeste ridurranno sempre più la crescita ed aumenteranno la mortalità.Infine, un altro importante argomento di cui si parla sempre troppo poco è l
’esbosco.
Cioè: come si porta il legname in fabbrica? Non è assolutamente un fatto secondario dal momento che, di solito, i danni maggiori ai suoli ed alla stabilità dei versanti vengono fatti proprio per aprire delle piste di accesso per i camion
. Danni di solito tanto più gravi, quanto più delicate sono le situazioni in cui si opera.Un tempo si usavano massicciamente muli e teleferiche che in certi casi potrebbero tornare a sostituire i mezzi meccanici, ma con un aumento dei costi che le ditte non vogliono o non possono sostenere. (Una parentesi: non si faccia l’errore di credere che la selvicoltura del passato fosse migliore di quella attuale perché spesso era perfino peggio). Abbiamo accennato che i boschi italiani ed europei sono in massima parte molto giovani, molto densi e con una biodiversità ridotta ai minimi termini. In queste condizioni, il taglio non solo è possibile, ma anche auspicabile perché, se ben fatto, può abbreviare di decenni il periodo necessario perché ammassi di giovani alberi diventino dei veri boschi. Viceversa, un taglio di tipo commerciale standard, arresta lo sviluppo dell’ecosistema o, addirittura, lo fa regredire ad uno stadio ancor più precoce. Il problema vero è la distruzione di informazione; qualcosa che, come abbiamo accennato, dipende sostanzialmente dalla biodiversità, dal suolo e dagli alberi maggiori. L’incremento di questi dovrebbe quindi essere il scopo principale del taglio, mentre i metri cubi di legname dovrebbero essere considerati il sottoprodotto.In pratica, un taglio che aiuta lo sviluppo dell’ecosistema comporta un piano di assestamento su almeno tre secoli, molti interventi leggeri e graduali su piccole superfici, una visione ecologica nella scelta delle piante da abbattere, metodi di esbosco che non danneggino il suolo, interventi integrativi di reintroduzione di specie arboree ed arbustive localmente estinte. Tutte cose che costano molto oggi e che daranno vantaggi fra 50 o 100 anni. Per questo semplice e solido motivo, la prassi è di fare più o meno il contrario di ciò che si dovrebbe fare.
Esistono i cosiddetti “boschi abbandonati”?
Nessun professionista serio usa mai questa espressione, “boschi abbandonati”, che, invece, continuamente rimbalza sulla stampa e nell’ambiente politico-imprenditoriale da cui dipende il destino dei nostri boschi. Nata in gran parte dalla nostalgia dei vecchi montanari per la propria gioventù, l’idea di “boschi abbandonati” attribuisce (quasi) qualunque evento sgradevole o disastroso alla carenza di “cura” dei boschi (che per chi usa questa espressione consisterebbe in assidui tagli). Abbiamo già detto che molti dei boschi attuali sono costituiti da piantagioni di conifere o da giovani cedui che effettivamente avrebbero bisogno di almeno un paio di diradamenti ben scaglionati nel tempo. Ma è anche vero che, nel complesso, le condizioni di salute dei boschi e delle montagne è oggi molto migliore che “
ai miei bei tempi”, quando la fame spingeva la gente a segare qualunque cosa fosse in qualunque modo utilizzabile e l’erosione raggiungeva tassi oggi inimmaginabili, malgrado tutte le tempeste che ci “regala” il riscaldamento globale.
Alcune idee da chiarire e miti da sfatare.
Parlando di tagli boschivi, solitamente ci si trova a dover rispondere ad alcune affermazioni che, pur essendo veritiere, sono usate per sostenere tesi sbagliate. Vediamo quelle più frequenti.
Affermazione numero 1 –
Il taglio del bosco a fini energetici è sovvenzionato con fondi pubblici come parte integrante del piano di riduzione delle emissioni climalteranti. La UE si è data l’ambizioso traguardo di raggiungere il 32% di energia rinnovabile entro il 2030, il che significa più che triplicare la percentuale attuale in appena dieci anni.Uno sforzo notevole che richiede di sfruttare al massimo tutte le risorse possibili.Attualmente, il legname costituisce quasi il 70% circa dell’energia rinnovabile europea, corrispondente al 5% circa dei consumi complessivi dei 28. Conta cioè il triplo dell’idroelettrico, il decuplo dell’eolico e più di trenta volte il contributo del solare (termico e fotovoltaico insieme).Risposta: Prima di entrare in dettaglio, una precisazione:
l’unico modo per ridurre davvero le emissioni di CO2 ed altri gas climalteranti e l’impatto umano sul Pianeta è ridurre i consumi finali di energia. Tutto il resto sono pretesti per consentire/finanziare attività speculative. Ciò detto, l’affermazione n.1 è veritiera ed è proprio questo il cuore del problema:
pretendere che la produzione di legname si adegui alla domanda, anziché il contrario. Quanto alla pretesa sostenibilità dei piani di taglio, osservo in particolare che non ne ho mai visto uno che tenga conto del rapidissimo peggioramento delle condizioni climatiche. Eppure un paio di annate ingrate (cioè del tutto normali già oggi ed a maggior ragione in futuro) sono sufficienti per mandare a monte l’attecchimento delle piantumazioni. I cedui ricrescono con più certezza perché sfruttano apparati radicali già formati, ma una parte delle radici muore in seguito al taglio e, se la densità dei rilasci è bassa (come di norma), il sole ed il vento ammazzano la maggior parte degli alberi rimasti in piedi, mentre il sole e la pioggia danneggiano pesantemente il suolo. Le reti di ife di cui si è parlato nella parte iniziale del pezzo scompaiono del tutto o quasi. Le ceppaie di molte latifoglie ricacciano, ma con sempre meno vigore, mentre l’eliminazione degli eventuali alberi adulti e le avversità ambientali riducono sia la produzione di semi che le probabilità di germinazione di questi. Anche gli ungulati, selvatici e domestici, possono ritardare di decenni lo sviluppo di una copertura arborea definibile “bosco”.
In pratica, non possiamo sapere quale sarà il tasso di ricrescita del bosco che tagliamo, ma possiamo contare sul fatto che sarà inferiore a quello storico che troviamo sui manuali e sui prontuari.Affermazione numero 2 –
Bruciando legna si immette in atmosfera solo una parte del carbonio precedentemente sottratto all’atmosfera dalla fotosintesi, dal momento che radici e ramaglia restano in loco. Inoltre, la CO2 emessa sarà rapidamente riassorbita dalla ricrescita del bosco, accelerata dal taglio.Risposta: Il rilascio di CO2 dal legno bruciato è immediato, mentre il suo riassorbimento è molto graduale e neanche certo. Inoltre, l’aumento di insolazione sul terreno dovuta al taglio accelera la mineralizzazione dei suoli con perdita di fertilità e consistenti emissioni di CO2. In sintesi,
la combustione di legno può essere considerata come “carbon neutral” solo in tempi dell’ordine di molti decenni e a determinate condizioni non sempre presenti, mentre nell’immediato contribuisce comunque all’aumento della CO2 atmosferica.Affermazione numero 3 –
L’Europa ha una considerevole copertura boschiva (intendendo “bosco” nella sua accezione più ampia possibile). Ben 180 milioni di ettari, corrispondenti al 40% circa del territorio. Ancora più importante, questa superficie è andata aumentando costantemente dal 1950 ad oggi. Anche se il fenomeno sta rallentando, ancora nel corso degli ultimi 15 anni la superficie “forestale” è aumentata del 5% circa, caso unico nel mondo.Risposta: 180 milioni di ettari di copertura boschiva sono tanti, ma gli Europei sono 500 milioni, il che ci da circa 3.600 mq di bosco per uno, che è davvero molto poco. Comunque, oltre alla superficie, si dovrebbe tener conto della biomassa e della biodiversità che sono due dei tre parametri principali per farsi un’idea della quantità di carbonio stoccato ed anche dello stato di salute dei boschi (il terzo parametro è l’intensità dell’attività fotosintetica o, in alternativa, la densità foliare). Del resto
dai dati satellitari risulta un evidente impoverimento della copertura arborea, soprattutto in Svezia e Finlandia, ma un poco dappertutto.Se osserviamo ad un sufficiente ingrandimento la mappa riportata dal
Global Forest Watch che trovate sotto, vediamo che nella maggior parte d’Europa domina un fitto mosaico di pixel rossi (superficie forestale perduta) e blu (superficie forestale aggiunta).
Questo significa che la superficie arborata complessiva non diminuisce, ma è soggetta ad uno sfruttamento industriale molto intenso che impone turni di taglio brevissimi. In pratica, non abbiamo boschi, bensì colture industriali da legno; perlopiù molto giovani ed instabili che non riescono mai a strutturarsi come veri ecosistemi forestali. Dal punto di vista industriale, questo sistema funziona fin quando tempeste, siccità o parassiti non devastano queste colture, mentre dal punto di vista climatico ed ecologico è un disastro comunque.
Affermazione numero 4 –
La gestione delle foreste europee è soggetta all’occhiuto controllo delle autorità che ne impongono una gestione improntata ai criteri di sostenibilità ed è soggetta a rigide norme di tutela, per non parlare dei 110 milioni di ettari di boschi soggetti a vincoli particolarmente restrittivi (aree protette, rete Natura 2000, vincolo idrogeologico, ecc.). Complessivamente, solo i 2/3 della crescita annuale di biomassa viene destinata al taglio.Il loro sfruttamento quindi non solo non arreca danni all’ambiente europeo, ma riducendo l’importazione di legname all’estero, contribuisce alla tutela delle foreste tropicali, siberiane, ecc. soggette a ben più pirateschi regimi.Risposta: In Italia (
ma in alcuni paesi UE è anche peggio) chiunque abbia un po’ di pratica sul terreno sa che le procedure per la concessione dei permessi sono ad un tempo farraginose ed inefficaci, i controlli praticamente inesistenti perfino nelle aree protette e sulle proprietà demaniali.Tanto che ci sono ditte che preferiscono correre il rischio di un’occasionale sanzione pur di tagliare più del dovuto. Anche laddove sono richieste procedure e valutazioni complesse (come per la “
rete natura 2000”), queste sono solo carta dal momento che chi propone il taglio è anche colui che redige una valutazione che sarà poi vagliata da enti per i quali la priorità assoluta è attirare una qualunque attività economica sul proprio territorio, costi quel che costi (letteralmente).
Affermazione numero 5 –
E’ pur vero che la combustione di pellet e cippato produce consistenti quantitativi di polveri sottili e di Benzo (a)pirene che danno un contributo importante alla pessima qualità dell’aria di molte città, specie in Val Padana. Tuttavia, su questo punto, c’è stato un grande miglioramento tecnologico che proseguirà tanto più rapidamente, quanto più si investirà su questo combustibile.
Risposta: La questione dell’inquinamento esula dalle mie competenze, per cui mi limiterò ad osservare che se riduco la nocività dei singoli impianti, ma ne moltiplico il numero, l’inquinamento complessivo aumenterà comunque.Recentemente, abbiamo anche sperimentato come l’inquinamento atmosferico favorisca sia la diffusione di alcune malattie anche gravi.
Affermazione numero 6 –
Le varie filiere del legno, tutte insieme, danno lavoro a circa 3,5 milioni di persone in Europa e producono circa l’1% del PIL comunitario. Molto di più per alcuni paesi come la Finlandia.Risposta: Per quanto riguarda la rilevanza economica delle attività forestali, abbiamo qui un esempio tipico di un problema assolutamente generale: il fatto che nel valutare il valore della filiera non si considerano le esternalità. Senza qui entrare in dettaglio,
si chiamano esternalità tutti quei costi connessi con la produzione, l’uso e lo smaltimento di prodotti o servizi che non ricadono su chi acquista ed usa quel prodotto o servizio, bensì sulla comunità intera. Tipicamente, costi sociali ed ambientali difficili da quantificare come il peggioramento del clima, la perdita di biodiversità, l’incremento del’erosione e delle frane, il degrado delle risorse, ecc. Significa che i vantaggi economici sono spesso minori del previsto, finanche negativi in parecchi casi. E’ quella che Herman Daly chiamava “
crescita anti-economica”. Una “macchina” molto difficile da fermare perché i vantaggi sono diretti e concentrati su poche persone molto capaci di portare avanti le proprie istanze, mentre le perdite sono indirette e diffuse sull’intera popolazione. Un altro esempio di questo tipo,
la filiera del marmo apuano, lo abbiamo approfondito in precedenza su XR Magazine.
Conclusioni.
Per tornare al titolo:
Il legname è energia rinnovabile? La risposta è: “
Si, ma solo a determinate condizioni, di solito incompatibili con un suo sfruttamento industriale”.Alla fin fine, la questione è semplice: un taglio ben fatto dal punto di vista forestale non sarebbe redditizio. Anzi, spesso non lo sarebbe comunque, visto che l’industria del legname si sta sviluppando solo grazie a massicci contributi pubblici (cioè tasse e debiti per i cittadini), nonché a norme e leggi fatte su misura.
Insomma, è vero che una percentuale consistente dei nostri boschi trarrebbe vantaggio dal taglio, ma solo se questo venisse praticato con criteri opposti a quelli correnti e, quindi, non remunerativi.La Commissione Europea sta tentando di invertire la rotta che lei stessa ha tracciato in passato. Se non ci riuscirà, non vedremo una repentina scomparsa dei boschi, come in tanti altri paesi, bensì un loro progressivo degrado che ne ridurrà la capacità di contrasto del riscaldamento globale e, contemporaneamente, la resilienza ai suoi effetti (siccità, ondate di calore, incendi, diffusione di parassiti e tempeste). Anche senza eventi spettacolari, ci sarà quindi una ripresa dei fenomeni erosivi che porteranno sedimenti nei corsi d’acqua a valle, aumentando i rischi connessi con reti idrauliche completamente artificiali e sottodimensionate. A mio avviso, dovremmo sovvenzionare solo i tagli di rinaturalizzazione delle aree vincolate e vigilare che i boscaioli non facciano troppi danni su tutto il resto, senza sovvenzionarli.Il legname sarebbe poi più utile per aumentare il grado di autonomia energetica delle comunità rurali, piuttosto che per sostenere filiere industriali e finanziare l’acquisto di macchine operatrici.Certo, ciò comporterebbe ridimensionare una fiorente filiera industriale, con le necessarie conseguenze negative sul PIL e sull’occupazione.
Quello che dobbiamo capire è che l’epoca dei compromessi che salvano capra e cavoli è finita. Sempre più spesso dovremo scegliere: o salviamo la capra o salviamo i cavoli e spesso sarà una scelta dolorosa.
Credo però che la scelta migliore sia sempre quella che tutela ciò che resta della biosfera perché, se non fermeremo l’estinzione di massa, non ci sarà scampo per nessuno di noi perché la Biosfera è l’unica cosa che può mantenere condizioni fisico-chimiche compatibili con la vita su questo pianeta.Credits delle immagini
L’immagine di apertura è di James Anderson, World Resources Institute, Creative Commons Attribution
Le altre immagini sono personali di Jacopo Simonetta