E se smettessimo di fingere? L’apocalisse climatica sta arrivando. Per prepararci, dobbiamo ammettere che non possiamo evitarlo.
/xr-magazine/2020/03/11/e-se-smettessimo-di-fingere/E se smettessimo di fingere? L’apocalisse climatica sta arrivando. Per prepararci, dobbiamo ammettere che non possiamo evitarlo.Di Jonathan Franzen
The New Yorker, 8 settembre 2019
La redazione di XR Magazine si è interrogata e confrontata circa la possibilità di pubblicare o meno questo articolo, che alla sua uscita sul New Yorker è stato oggetto di un acceso dibattito perché alcuni lo hanno trovato “disfattista”, mentre altri hanno segnalato alcune inesattezze dal punto di vista scientifico. Nella fattispecie, un fact checker chiamato a verificarne il contenuto segnalò come nell’articolo vi fossero alcuni errori di interpretazione dei modelli climatici. L’articolo non venne corretto. L’interpretazione pessimistica dei modelli climatici da parte di Franzen venne criticata anche dal noto climatologo Michael E. Mann sul suo profilo twitter. Jonathan Franzen non è uno scienziato, ma un letterato di alta levatura, da sempre attento alle tematiche ambientali, ed è considerato uno dei più grandi scrittori viventi. Abbiamo quindi scelto di pubblicare il suo articolo nella sezione “Letture Ribelli” perché speriamo che possa contribuire a far nascere anche in Italia un dibattito su queste tematiche.Il valore che crediamo abbia tale articolo risiede anche nell’effetto chiarificatore che può avere la sua lettura circa le intenzioni più intime che spingono le attiviste e gli attivisti ambientali: “lo faccio solo per vedere il risultato o per il valore che ha il percorso? Di cosa alimento le mie speranze?”. Come dice lo stesso Franzen nella conclusione: “Finché abbiamo qualcosa da amare abbiamo qualcosa da sperare”.“C’è speranza infinita”, dice Kafka, “ma non per noi”. Questo è un epigramma appropriatamente mistico di uno scrittore i cui personaggi lottano per obiettivi apparentemente raggiungibili e, tragicamente o comicamente, non riescono mai a raggiungerli. Mi sembra però che, nel nostro mondo sempre più oscuro, il contrario della battuta di Kafka sia altrettanto vero: non c’è speranza, tranne che per noi.
Sto parlando, ovviamente, dei cambiamenti climatici. La lotta per frenare le emissioni globali di anidride carbonica e impedire che il Pianeta si sciolga ha il gusto della scrittura di Kafka. L’obiettivo è chiaro da trent’anni e, nonostante gli sforzi per raggiungerlo, non abbiamo fatto progressi. Oggi, le prove scientifiche sono praticamente irrefutabili. Se una persona ha meno di sessant’anni, ha buone possibilità di assistere alla radicale destabilizzazione della vita sulla terra: massicce carestie, incendi apocalittici, economie al collasso, inondazioni epiche, centinaia di milioni di rifugiati in fuga da regioni rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente. Se ha meno di trent’anni, vi assisterà di sicuro.
Se si tiene al Pianeta, e alle persone e agli animali che vivono su di esso, si può pensarla in due modi. Si può continuare a sperare che la catastrofe sia evitabile, e sentirsi sempre più frustrati o arrabbiati per l’inerzia del mondo. Oppure si può accettare che il disastro sta arrivando, e
iniziare a ripensare cosa significa coltivare la speranza.Anche a questa data tardiva, le espressioni di irrealistica speranza continuano ad abbondare. Difficilmente passa un giorno senza che mi capiti di leggere che è tempo di “rimboccarci le maniche” e “salvare il Pianeta”; che il problema del cambiamento climatico può essere “risolto” se si mette in moto la volontà collettiva. Questo messaggio poteva essere ancora vero nel 1988, quando la scienza svelò chiaramente la realtà, ma negli ultimi trent’anni abbiamo emesso tanta anidride carbonica quanto nei due precedenti secoli di industrializzazione. I fatti sono cambiati, ma per qualche motivo il messaggio rimane lo stesso.
Psicologicamente, questa negazione ha un senso. Nonostante l’indecente realtà del fatto che presto sarò morto per sempre, io vivo nel presente, non nel futuro. Potendo scegliere tra un’allarmante astrazione (la morte) e la rassicurante evidenza dei miei sensi (la colazione!), la mia mente preferisce concentrarsi su quest’ultima. Anche il Pianeta è ancora meravigliosamente integro, ancora sostanzialmente normale ⎯ le stagioni che cambiano, un’altra tornata elettorale, nuove serie su Netflix ⎯ e il suo imminente collasso fa ancora meno presa sulla mia mente che la morte.
Altri tipi di apocalisse, religiosa o termonucleare o causata da asteroidi, hanno almeno la nettezza binaria della morte: un momento il mondo è lì, il momento successivo è scomparso per sempre.
L’apocalisse climatica, al contrario, è confusa. Prenderà la forma di crisi sempre più gravi che si accavallano caoticamente fino a quando la civiltà non inizia a cedere. Le cose andranno molto male, ma forse non tanto presto, e forse non per tutti. Forse non per me.
Parte della negazione, tuttavia, è più intenzionale. La malvagia posizione negazionista del Partito Repubblicano (Statunitense, n.d.r.) sulla scienza del clima è ben nota, ma un certo tipo di negazione è radicata anche nella politica progressista, o almeno nella sua retorica. Il “Green New Deal”, il modello per alcune delle proposte più sostanziali presentate sulla questione, è ancora inquadrato come la nostra ultima possibilità di evitare la catastrofe e salvare il Pianeta, attraverso giganteschi progetti di energia rinnovabile. Molti dei gruppi che supportano tali proposte utilizzano ancora parole come “fermare” il cambiamento climatico o sottintendono che c’è ancora tempo per prevenirlo. A differenza della destra, la sinistra si vanta di ascoltare gli scienziati del clima, alcuni dei quali concedono in effetti che la catastrofe sia “teoricamente” evitabile. Ma non tutti sembrano ascoltare attentamente. L’enfasi è posta sulla parola “teoricamente”.
La nostra atmosfera e gli Oceani possono assorbire solo una determinata quantità di calore prima che il cambiamento climatico, intensificato da vari cicli di feedback, vada completamente fuori controllo. Scienziati e responsabili politici concordano sul fatto che supereremo questo punto di non ritorno se la temperatura media globale aumenterà di oltre due gradi Celsius (forse un po’ di più, ma forse anche un po’ di meno). L’ I.P.C.C. ⎯
Intergovernmental Panel on Climate Change⎯ dice che, per limitare l’aumento a meno di due gradi, non dobbiamo solo invertire la tendenza degli ultimi tre decenni. Dobbiamo avvicinarci a zero emissioni nette, a livello globale, nei prossimi tre decenni.
Si tratta di un’impresa, a dir poco, ardua. Presuppone inoltre che ci si fidi dei calcoli dell’I.P.C.C. Una nuova ricerca, descritta il mese scorso (agosto 2019 n.d.r.) su “
Scientific American”, dimostra che gli scienziati del clima, lungi dall’esagerare la minaccia dei cambiamenti climatici, ne hanno sottovalutato il ritmo e la gravità. Per prevedere l’aumento della temperatura media globale, gli scienziati fanno affidamento su complicati modelli atmosferici. Prendono una miriade di variabili e le incrociano con l’aiuto di supercomputer per generare, diciamo, diecimila diverse simulazioni per il prossimo secolo, al fine di fare la “migliore” previsione dell’aumento della temperatura. Quando uno scienziato prevede un aumento di due gradi Celsius, sta semplicemente nominando un dato di cui è praticamente certo: l’aumento sarà di almeno due gradi. L’aumento potrebbe, in effetti, essere molto più elevato. (
n.d.r. questo è il paragrafo dell’articolo che è stato più criticato da attivisti e climatologi, come in questi tweet della dott.ssa Genevieve Guenter di End Climate Silence e del climatologo Michael E. Mann).
Come non scienziato, produco un mio tipo di simulazione. Faccio scorrere vari scenari futuri attraverso il mio cervello, applico i vincoli della psicologia umana e della realtà politica, prendo atto dell’inarrestabile aumento del consumo globale di energia (finora, il risparmio di anidride carbonica fornito dall’energia rinnovabile è stato più che compensato dall’aumento della domanda dei consumatori), e tengo conto degli scenari in cui l’azione collettiva evita la catastrofe. Gli scenari, che traggo dalle indicazioni di
policy-maker e attivisti, condividono alcune condizioni necessarie.
La prima condizione è che ognuno dei principali Paesi inquinanti istituisca misure draconiane di conservazione, chiuda gran parte delle sue infrastrutture energetiche e di trasporto e riorganizzi completamente la sua economia. Secondo un recente articolo su
Nature, le emissioni di anidride carbonica delle infrastrutture globali esistenti, se mantenute in funzione per tutta la loro normale durata, supereranno la nostra intera “quota” di emissioni – le ulteriori quantità di anidride carbonica che possono essere rilasciate senza varcare la soglia della catastrofe. (Questa stima non include le migliaia di nuovi progetti per il trasporto o per l’energia già pianificati o in costruzione). Per rimanere all’interno di tale quota, interventi strutturali di questo tipo devono venir imposti non solo
in ogni Paese ma
in ogni parte di ogni Paese. Fare di New York una verde utopia non servirà a niente se i texani continuano a pompare petrolio e a guidare grossi SUV.
Le azioni intraprese da questi Paesi devono anche essere quelle giuste. Ingenti somme di denaro dello stato devono essere spese senza essere sprecate e senza riempire le tasche sbagliate. Può essere utile ricordare l’episodio kafkiano della decisione europea sui biocarburanti, che è servita ad accelerare la deforestazione dell’Indonesia per le piantagioni di olio di palma, e il sussidio americano al carburante a base di etanolo, che si è rivelato benefico solo per i coltivatori di mais.
Infine, un numero impressionante di esseri umani, tra cui milioni di americani che odiano il governo, deve accettare tasse elevate e un drastico ridimensionamento del proprio stile di vita senza ribellarsi. Devono accettare la realtà del cambiamento climatico e avere fiducia nelle misure estreme adottate per combatterlo. Devono smettere di respingere le notizie che non gradiscono come false. Devono mettere da parte nazionalismo e risentimenti di classe e razziali. Devono fare sacrifici per lontane nazioni minacciate e lontane generazioni future (n.d.r.
come XR siamo consapevoli che la crisi climatica sta facendo vittime anche adesso, anche in Paesi ricchi come gli Stati Uniti, per inondazioni, ondate di caldo, uragani sempre più potenti…). Devono essere permanentemente terrorizzati da estati più calde e calamità naturali più frequenti, invece che farci l’abitudine. Ogni giorno, invece di pensare alla colazione, devono pensare alla morte.
Chiamatemi pessimista o chiamatemi umanista, se volete, ma non credo che la natura umana sia prossima a un cambiamento radicale. Nella mia mente posso predire diecimila scenari e in nessuno di essi vedo raggiunto l’obiettivo dei due gradi.
A giudicare dai recenti sondaggi di opinione, che mostrano come la maggioranza degli americani (molti dei quali repubblicani) siano pessimisti sul futuro del Pianeta e a giudicare dal successo di un libro come
“La terra inabitabile” di David Wallace-Wells, pubblicato quest’anno, non sono il solo ad aver raggiunto questa conclusione. Ma la riluttanza a comunicare questo messaggio continua. Alcuni attivisti sostengono che se ammettiamo pubblicamente che il problema non può essere risolto, scoraggeremo le persone dall’intraprendere qualsiasi azione di miglioramento. Questo mi sembra un calcolo non solo condiscendente, ma anche inefficace, dato il pochissimo progresso fatto finora. Gli attivisti che vi si attengono mi ricordano quei capi religiosi che temono che, senza la promessa della salvezza eterna, le persone non si preoccuperanno di comportarsi bene. Nella mia esperienza, i non credenti non amano il loro prossimo meno dei credenti.
E quindi mi chiedo cosa potrebbe accadere se, invece di negare la realtà, ci dicessimo la verità.Prima di tutto, anche se non possiamo più sperare di essere salvati dallo scenario di due gradi di riscaldamento,
esistono ancora validi motivi pratici ed etici per ridurre le emissioni. A lungo termine, probabilmente non farà differenza di quanto superiamo i due gradi; una volta superato il punto di non ritorno, il mondo diventerà auto-trasformante.
Nel breve termine, tuttavia, le mezze misure sono meglio che nessuna misura. Dimezzare le nostre emissioni renderebbe gli effetti immediati del surriscaldamento un po’ meno severi e ritarderebbe un po’ il punto di non ritorno. La cosa più terrificante del cambiamento climatico è la velocità a cui sta avanzando, la frantumazione quasi mensile dei record di temperatura.
Se l’azione collettiva conducesse anche a solo un uragano devastante in meno, anche a solo qualche anno in più di relativa stabilità, sarebbe un obiettivo che vale la pena perseguire.In realtà,
è un obiettivo che varrebbe la pena perseguire anche se non avesse alcun effetto. Non conservare una risorsa limitata quando sono disponibili misure di conservazione, aggiungere inutilmente anidride carbonica all’atmosfera quando sappiamo benissimo che cosa sta causando, è semplicemente sbagliato.
Sebbene le azioni di un individuo non abbiano alcun effetto sul clima, ciò non significa che non abbiano significato. Ognuno di noi ha una scelta etica da fare. Durante la Riforma protestante, quando la “fine dei tempi” era solo un’idea, non la cosa orribilmente concreta che è oggi, una domanda dottrinale chiave era se si dovessero compiere opere buone perché avrebbero condotto in Paradiso, o se si dovessero compiere semplicemente perché buone – perché, sebbene il Paradiso sia un punto interrogativo, si sa che questo mondo sarebbe migliore se tutti le compissero.
Posso rispettare il Pianeta e preoccuparmi delle persone con cui lo condivido senza credere che ciò mi salverà.Inoltre, una falsa speranza di salvezza può essere attivamente dannosa. Se si continua a credere che la catastrofe possa essere evitata, ci si impegna ad affrontare un problema talmente immenso da dover essere necessariamente priorità assoluta per tutti sempre. Un risultato, stranamente, è una specie di compiacimento: votando per i candidati verdi, andando al lavoro in bicicletta, evitando i viaggi aerei, si potrebbe sentire di aver fatto tutto il possibile per l’unica cosa che valga la pena fare. Mentre,
se si accetta la realtà che presto il Pianeta sarà diventato così caldo da minacciare la civiltà, c’è molto di più da fare.Le nostre risorse non sono infinite. Anche se decidiamo di investire gran parte di esse in una scommessa azzardatissima, riducendo le emissioni di anidride carbonica nella speranza che questo ci salvi, non è saggio investirle tutte. Ogni miliardo di dollari spesi per treni ad alta velocità, che possono o meno essere adatti per il Nord America, è un miliardo non speso per la preparazione alle catastrofi, per l’assistenza a paesi inondati o per futuri aiuti umanitari.
Ogni mega-progetto di energia rinnovabile che distrugge un ecosistema vivente ⎯ lo sviluppo di energia “verde” ora in atto nei parchi nazionali del Kenya, i giganteschi progetti idroelettrici in Brasile, la costruzione di parchi solari in spazi aperti, piuttosto che in aree abitate ⎯
erode la resilienza di un mondo naturale che già lotta per sopravvivere. Il sovrasfruttamento del suolo e delle risorse idriche, l’abuso di pesticidi, la devastazione della pesca mondiale – la volontà collettiva è necessaria anche per questi problemi e, a differenza del problema del carbonio, è in nostro potere risolverli. Come bonus,
molte azioni di conservazione low-tech (ripristino delle foreste, conservazione delle praterie, minor consumo di carne) possono ridurre la nostra impronta di carbonio con la stessa efficacia dei grandi cambiamenti industriali.Una guerra a tutto campo contro i cambiamenti climatici avrebbe avuto senso fintanto che si poteva vincerla. Se accettiamo di averla persa, altri tipi di azioni assumono un significato maggiore. Prepararsi a incendi, alluvioni e ad accogliere rifugiati è un esempio direttamente pertinente. Ma
l’imminente catastrofe aumenta l’urgenza di quasi tutte le azioni di miglioramento del mondo. In tempi di caos crescente, le persone cercano protezione nel tribalismo e nella forza delle armi, piuttosto che nello stato di diritto, e
la nostra migliore difesa contro questo tipo di distopia è mantenere democrazie funzionanti, sistemi legali funzionanti, comunità funzionanti. A questo proposito,
qualsiasi movimento verso una società più giusta e civile può ora essere considerato un’azione climatica significativa. Garantire elezioni eque è un’azione per il clima. La lotta alla disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è un’azione per il clima. Spegnere le macchine dell’odio sui social media è un’azione per il clima. Istituire una politica sull’immigrazione che sia umana, sostenere l’uguaglianza razziale e di genere, promuovere il rispetto delle leggi e la loro applicazione, sostenere una stampa libera e indipendente, liberare il paese dalle armi d’assalto – sono tutte significative azioni per il clima.
Per sopravvivere all’aumento delle temperature, ogni sistema, sia del mondo naturale che del mondo umano, dovrà essere il più forte e sano possibile.\ E poi c’è la questione della speranza. Se la nostra speranza per il futuro dipende da uno scenario sfrenatamente ottimistico, cosa faremo tra dieci anni, quando questo tipo di scenario diventerà irrealistico anche in teoria? Lasceremo il Pianeta al suo destino? Seguendo il consiglio dei pianificatori finanziari,
suggerirei un più equilibrato “portafoglio di speranze”, alcune a lungo termine, la maggior parte a breve termine. Va bene lottare contro i limiti della natura umana, sperando di mitigare il peggio di ciò che accadrà, ma è altrettanto importante combattere battaglie più piccole e più locali, che si ha una realistica speranza di vincere.
Continuare a fare la cosa giusta per il Pianeta, certo, ma anche continuare a cercare di salvare ciò che si ama in modo specifico – una comunità, un’istituzione, un luogo selvaggio, una specie in pericolo – e godere dei propri piccoli successi.
Ogni cosa buona che facciamo ora è probabilmente un riparo contro un futuro più caldo, ma la cosa veramente significativa è che è buona oggi. Finché abbiamo qualcosa da amare, abbiamo qualcosa da sperare.A Santa Cruz, dove vivo, esiste un’organizzazione chiamata
Homeless Garden Project. In una piccola fattoria all’estremo ovest della città, offre lavoro, formazione, sostegno e un senso di comunità ai membri della popolazione di senzatetto della città. Non può “risolvere” il problema dei senzatetto, ma sta cambiando delle vite, una alla volta, da quasi trent’anni. Sostenendosi in parte attraverso la vendita di prodotti biologici, contribuisce in modo più ampio a una rivoluzione nel modo in cui pensiamo alle persone bisognose, alla terra da cui dipendiamo e al mondo naturale che ci circonda. In estate, come membro del Gruppo di Acquisto Solidale che la sostiene, gusto il cavolo riccio e le fragole che produce, e in autunno, poiché il terreno è vivo e incontaminato, piccoli uccelli migratori trovano sostentamento nei suoi solchi.
Potrebbe venire un momento, prima di quanto a qualcuno di noi piace pensare, quando i sistemi dell’agricoltura industriale e del commercio globale si guasteranno e i senzatetto saranno più numerosi delle case. A quel punto, l’agricoltura locale tradizionale e le comunità forti non saranno più solo parole di moda fra i
liberal.
La gentilezza verso i vicini e il rispetto per la terra – coltivare un suolo sano, gestire saggiamente l’acqua, prendersi cura degli insetti impollinatori – sarà essenziale in una crisi e in qualunque società le sopravviva. Un progetto come
Homeless Garden mi offre la speranza che il futuro, sebbene indubbiamente peggiore del presente, possa anche, in qualche modo, essere migliore. Soprattutto, però, mi dà speranza per oggi.
Tradotto da XR Italia dall’articolo originale: https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/what-if-we-stopped-pretendingL’autore: Jonathan Franzen, scrittore, saggista e appassionato di ornitologia, collabora con il New Yorker. È autore dei romanzi “Purity”, “Libertà” (in cui uno dei protagonisti è un ambientalista che prova in tutti i modi a proteggere ciò che ama, la dendroica cerulea, un uccello canoro a rischio); “Le correzioni”, “Forte Movimento”, “La ventisettesima città”; ha scritto tre raccolte di saggi, tra cui “La fine della fine della Terra”, “Come stare soli”; un libro di memorie, “Zona disagio”.
Credits delle immagini: tutte le grafiche sono state elaborate per XR Italia da Carlotta Artioli.